18/11/2021
Angela e Lorenzo
Esistono degli animi sensibili che avvertono ciò che sfugge alla moltitudine e riescono ad udire e decifrare la voce del vento.
Queste persone dotate di percezione sensitiva sono predisposte ad accogliere l’influsso della Natura per osmosi, senza riserve mentali che lo ostacolerebbe; esse sono in grado di sentire e assorbire il sospiro di Gea, la nostra Madre Terra.
Una di queste persone speciali la nomineremo Sofia, anche se non è il suo vero nome rispettando, io testimone del suo novellare, il volere che ella espresse circa il suo anonimato.
Ella amava inoltrarsi nel fitto dei boschi e passeggiare sulle rive dei fiumi per ascoltare le voci che lei sola poteva udire, che narravano di fatti dimenticati, facenti parte di pagine non più lette nel grande libro del Tempo.
Amava in modo particolare ascoltare il Po Narratore, loquace in modo particolare quando le sue acque sono calme e la sua narrazione è un fluido sussurro.
Era un mattino d’estate di alcuni anni or sono che Sofia si recò sulle rive del Po, nella sua Torino; era in quell’ora nella quale l’aurora lotta con le tenebre notturne e ne esce vittoriosa e la città dorme ancora avvolta dal soporifero manto di Hypnos.
Si sedette sull’erba e dopo poco la sua mente e il suo cuore accolsero il racconto del grande fiume.
Angela faceva la domestica presso una famiglia della borghesia torinese, che la trattava come si trattavano le domestiche ad inizio novecento: vitto e alloggio in cambio di una dedizione completa, comprendente l’essere cuoca, sguattera, addetta alle pulizie, stiratrice e ogni altra incombenza che la signora di casa, pigra e schiava dell’assenzio, non era in grado di fare.
Lorenzo lavorava in una osteria, all’insegna del Leon d’oro, nome altisonante che contrassegnava in realtà uno squallido luogo frequentato da bevitori smodati, gestita da Bruno, uomo avido e senza scrupoli. Bruno tendeva agli ubriaconi sempre la stessa trappola: quando questi erano sotto l’effetto dell’alcol faceva firmare dei contratti di vendita di terreni ed abitazioni ceduti a lui a prezzi irrisori. Aveva rovinato parecchie persone e guadagnato parecchio denaro, ma la sua natura malvagia non era mai appagata dalle sue malefatte e continuava così nella sua opera criminale.
Angela e Lorenzo si amavano, di quell’ amore puro e travolgente che si manifesta quando finalmente s’ incontrano due anime che non possono vivere separate, essendo create per fondersi in una, completa e splendida. Ogni pensiero dell’uno era rivolto all’altra e viceversa e nei rari momenti di libertà stavano abbracciati forte, come ad opporsi ad un fato che li volesse separare. Si giurarono amore eterno, ben sapendo che un’anima perfetta non può disgiungersi.
Lorenzo, che non veniva pagato da Bruno da parecchio tempo, p***e la pazienza e chiese il saldo del suo lavoro; l’oste, disonesto come più non è possibile, non volle pagarlo e così Lorenzo interruppe il rapporto di lavoro adirandosi molto, prima comunque di cedere all’impulso di annientare quell’essere abbietto e rovinare così la sua reputazione.
Quella sera, sul ponte Vittorio Emanuele I che spesso fu testimone dei loro discorsi amorosi, Lorenzo comunicò ad Angela che sarebbe partito per la Francia, per fare fortuna, diretto da certi suoi parenti che da anni cercavano di convincerlo in tal senso. Angela trattenne a stento le lacrime e disse:
“Lorenzo, io non ho l’animo di vivere separata da te sapendoti lontano e in terra straniera. Cercati un lavoro qui in città, non tutti i datori di lavoro sono come Bruno.”
“Angela, è vero che di datori di lavoro migliori dell’oste malvagio è piena Torino, ma in Francia le paghe sono maggiori e più guadagno e minore sarà l’attesa per sposarci.” Passarono la sera abbracciati sul ponte a godersi i mille riflessi delle acque del Po che la Luna dedicava a loro e a tutti gli innamorati della città; nelle loro menti e nel loro cuore si affollavano pensieri contrastanti di speranza e timore.
Lorenzo partì per la Francia, quella strana terra così affine al Piemonte per vicinanza e scambi culturali e resa così avversa da una politica di odio guerresco durato secoli e fitto di conflitti sanguinosissimi. Due popoli che la logica vorrebbe fratelli e che invece si comportarono come due Caino in perenne lotta.
Lorenzo trovò un lavoro ben pagato, grazie ai suoi parenti, ma avvertì fin da subito odio e mancanza d’accettazione nei suoi confronti da parte dei francesi; mutismo interrotto soltanto da male parole, sguardi torvi e tutte le meschinità nelle quali l’uomo venuto al mondo per far numero è maestro.
Angela e Lorenzo si scrivevano lettere quotidiane dove si evidenziava l’intensità del loro amore che, per effetto della separazione forzata, cresceva a dismisura; entrambi le leggevano e rileggevano più volte, e così facendo lenivano la sofferenza che genera la lontananza.
Passarono mesi interi e la pazienza amorosa di Angela era al limite, quando avvenne una cosa strana: la corrispondenza col suo amato cessò improvvisamente.
Angela continuava a scrivere e nessuna risposta epistolare le perveniva; ella era disperata, Lorenzo era orfano e non aveva parenti a Torino e non sapeva a chi rivolgersi per avere notizie.
Erano passati ormai più di due mesi dall’ultima lettera ed Angela era in uno stato di profonda prostrazione; aveva la sera libera e decise di raggiungere il ponte Vittorio Emanuele I. Appena giuntavi si affacciò al parapetto e vide la Luna che dipingeva di mille riflessi le acque del possente fiume, si mise a piangere nel ricordare il suo amato e i tempi felici; fissò l’acqua che pareva ipnotizzarla, terribili pensieri balenarono nella mente della giovane, un tuffo e il suo dolore sarebbe finito. Lorenzo non tornerà più, pensò.
“Angela, Angela!” le parve di udire, non ebbe il tempo di voltarsi che sentì l’abbraccio vigoroso di Lorenzo, non stava sognando era lui in carne ed ossa.
Rimasero ad abbracciarsi per un certo tempo e poi infine Lorenzo spiegò alla sua amata le sue vicissitudini:
“Lavoravo tanto, guadagnavo bene ed ero contento, poi accadde che, un brutto giorno, vennero dei gendarmi a prelevarmi sul posto di lavoro; senza darmi alcuna spiegazione e con la minaccia delle armi mi misero le manette. Ero esterrefatto, chiedevo spiegazioni ma le loro facce feroci mi fecero capire che era meglio tacere; e così fui arrestato, senza sapere il perché ciò avveniva. Io ero innocente, ma non potendo spiegare niente a nessuno, capivo che l’essere innocente in galera è un fatto irrilevante; qualcuno aveva deciso sulla mia colpevolezza e ciò era sufficiente. Dagli altri detenuti seppi che un uomo era stato accoltellato a morte e siccome per i francesi se uno muore accoltellato è per opera di italiani, misero in galere diverse un certo numero di nostri connazionali, tra i quali io, colpevoli per nazionalità di appartenenza. Il caso volle che durante un nuovo accoltellamento l’omicida venisse fermato dai gendarmi e sottoposto ad interrogatorio; quell’assassino, francese, confessò di esser reo di numerosi delitti, tra i quali l’uccisione per la quale io ero in gattabuia. Fui quindi liberato dai gendarmi e sbattuto fuori dal carcere, senza scuse e guardato in modo torvo, come se essi fossero dispiaciuti che un italiano, o un piemontese, non marcisse in galera. Ed ora sono qui e starò sempre con te, meglio il pane secco a Torino che la pietanza in terra straniera.”
La meravigliosa anima nata dal congiungersi dei due amanti non si staccò più ed essi vissero una lunga vita d’amore; nemmeno la morte li separò perché pare che in certe notti di plenilunio due anime pure, dal ponte Vittorio Emanuele I, osservano la Luna che con i suoi riflessi gioca con le acque del grande fiume.
Racconto inedito scritto da Ernesto Martinasso
"I racconti del giovedì"