22/07/2024
Una delle attività umane più antiche e cariche di significati è quella della lavorazione dell'argilla, al fine di ottenere prodotti legati alle attività quotidiane, ma anche oggetti votivi, di culto, di gioco, d'ornamento. Simbolica unione dell'acqua e della terra, elementi investiti di sacralità in quanto fondamentali per la sussistenza, la produzione ceramica ha sempre avuto un ruolo preminente per le attività umane, sin dalle origini ataviche risalenti al Neolitico antico, quando le prime forme di lavorazione della materia prima, prevalentemente nella tipologia del contenitore per derrate, si affiancano alla sperimentazione e poi coltivazione dei prodotti della terra; il contenitore, dapprima semplicemente impastato ed essiccato al sole, successivamente cotto in fosse o forni interrati per renderlo più resistente, diventa il mezzo più comune per agevolare la conservazione e soprattutto lo scambio tra i prodotti. La necessità di ottenere contenitori meno fragili e quindi di maggiore durata porta progressivamente ad aumentare le temperature di cottura, perfezionare le fornaci, selezionare e depurare le argille, in modo da ridurre gli inclusi e rendere più compatto il prodotto finito. Sul territorio gravinese, gli esempi più antichi attestanti la produzione di contenitori di argilla risalgono alle fasi più antiche del Neolitico: il ritrovamento di ceramica preistorica a decorazione impressa nei siti nostrani investiti dalla ricerca archeologica lascia intendere l'utilizzo di fornaci per la cottura, nonché una particolare attenzione alla decorazione del corpo del vasellame, ottenuta, negli esempi più antichi, attraverso l'impressione a unghiate, puntelli, tremoli, "denti di lupo", dorsi di conchiglia. La decorazione dei contenitori si connette molto probabilmente all'attività femminile all'interno delle comunità neolitiche, e difatti il legame tra "donna" e "argilla" si ripresenterà più volte, specie in contesti cultuali.
A livello locale, nei siti preistorici più volte investigati dalle ricognizioni archeologiche su tutto il territorio gravinese, ma anche indagati attraverso saggi e scavi (valgano per esempio gli insediamenti individuati nelle località Ciccotto e Casa San Paolo) abbonda la presenza di ceramica neolitica che gli archeologi hanno considerato di produzione locale, nelle sue varie tipologie: da quella di uso comune, d'impasto più grossolano, agli esempi cronologicamente successivi, sempre più raffinati, di vasellame da corredo, a bande dipinte o acromo, ascrivibili a tutto l'arco del Neolitico fino all'età dei metalli; così come non è infrequente l'attestazione della ceramica d'età del bronzo, a impasto nerastro o brunito per via della cottura in ambiente riducente, dalle pareti lucidate a stecca per simulare il contenitore di metallo, decorata con tecniche a incisione o con elementi a rilievo come bugne o cordoni, naturalmente non tornita: in questa fase cronologica si diffondono tipologie vascolari diverse da quelle del periodo precedente e diventano prevalenti scodelle, ciotole, attingitoi, filtri, vasellame in genere legato alla lavorazione del latte, segnale di un mutamento dell'economia locale che è anche cambiamento socio-culturale, relativo a società agropastorali seminomadi, già indoeuropee, ben diverse dal sostrato neolitico, sedentario e prevalentemente a economia agricola.
Una produzione ceramica che, tuttavia, in agro gravinese si riscontra in grande quantità e in forme sempre più elaborate, non soltanto vascolari, ma anche coroplastiche e ornamentali, è quella relativa alla cultura japigia-peuceta che copre tutto il I millennio a.C. dalla prima età del Ferro all'età coloniale greca e oltre, fino alle soglie della romanizzazione del nostro territorio.
Una fondamentale introduzione è in questa fase, innanzitutto, quella del tornio, che darà il via alla produzione di vasellame tornito che andrà sempre più perfezionandosi nei secoli.
La produzione di vasellame decorato con motivi geometrici tipici della cultura japigia e poi peuceta, nonché con una marcata influenza della vicina e più radicata cultura enotria, affianca dapprima quella della ceramica "d'impasto" di uso comune, fino a prendere il sopravvento, in forme sempre più elaborate. La ceramica comune in questa fase sarà spesso utilizzata, oltre che per usi quotidiani, anche per la deposizione funeraria dei neonati in grossi vasi detti pithoi, cosiddetta sepoltura a enchitrysmos, ad attestare il simbolismo marcato tra la grande pancia del pithos e il grembo materno, in un'ideale restituzione del corpicino all'utero della madre Terra.
L'intensa ricerca sul campo e gli scavi archeologici a Gravina in Puglia e nei suoi immediati dintorni, riguardanti principalmente i siti di età arcaica e classica e in primis il Parco archeologico di Botromagno, ci hanno restituito elementi importantissimi relativi alle produzioni ceramiche locali, oltre che naturalmente alle importazioni attestanti i rapporti stretti specie con le colonie greche della costa jonica, che certamente hanno influenzato le produzioni indigene di vasellame introducendo nuove tipologie e nuovi canoni decorativi.
Importanti informazioni ci vengono dagli scavi archeologici effettuati sulla collina di Petramagna e nella necropoli del Padre Eterno, ove sono state rinvenute diverse fornaci per la cottura dei manufatti, in un contesto che copre diversi secoli, dall'età arcaica a quella ellenistica. La presenza di tali fornaci in ambienti con tutta probabilità preposti ad attività produttive, di tipo non solo agricolo ma anche e soprattutto artigianale, evidenzia l'importanza della lavorazione dell'argilla presso le comunità peucete stanziate in territorio di Gravina e orbitanti attorno al grande centro urbano di Silbìon/Sidin, la Silvium ricordata dalle fonti, poi importante statio romana lungo la via Appia antica. Il ritrovamento in gran quantità di elementi decorativi relativi a edifici pubblici e privati, antefisse, sime architettoniche, gocciolatoi, cornicioni e tegole, ma anche la produzione massiccia di pesi da telaio, rocchetti e oggetti di uso comune, di ornamenti personali, o ancor più di "giocattoli", di oscilla e tintinnabula, oggetti votivi in forma di animaletti, statuine femminili ex voto raffiguranti offerenti o divinità, ancor più attestano l'importanza che l'attività delle fornaci doveva avere per la vita quotidiana, sociale e finanche religiosa delle genti del posto; è tuttavia dalla produzione vascolare che ci viene il dato forse più illuminante circa l'attività dei nostri antichi ceramisti, e in particolare dalla ceramica apula a figure rosse del V secolo a.C., che vede sorgere la scuola del Pittore di Gravina, dal nome dato all'iniziatore di tale locale officina ceramica individuata nel 1974 a seguito degli scavi britannici sul colle Petramagna.
Questa produzione lascia intendere quale fosse l'importanza dell'artigianato ceramico locale, ormai assurto al livello di vera e propria arte, in quanto la produzione a figure rosse d'ispirazione attica, mutuata dalle colonie costiere a seguito della grecizzazione, consiste prevalentemente in ceramica da corredo, rappresentazione ed esibizione dello status sociale dei committenti.
L'analisi delle argille utilizzate può essere indicativa e utile a individuare la produzione indigena rispetto ai pezzi da corredo importati. Il territorio gravinese, specie nel suo versante meridionale, di natura prevalentemente alluvionale, presenta diverse cave da sempre utilizzate per il procacciamento delle terre rosse e argille di vario tipo, alcune delle quali di pregio, utili alla lavorazione dei manufatti.
Tali produzioni persistono anche nei secoli successivi alla romanizzazione del territorio, alla disgregazione dell'antico abitato in una serie di fattorie a economia artigianale o addirittura industriale, alla formazione e crescita d'importanza dei vici, non ultimo quello che sarà il nucleo della città moderna.
Il vicus è l'unità territoriale organizzata ove si concentrano le attività produttive: l'esempio più eclatante è, in territorio gravinese, il sito di Vagnari, dove l'équipe di archeologi guidata dal professor Alastair Small dell'Università di Edimburgo ha rinvenuto, tra gli altri importanti ritrovamenti, diverse fornaci di notevoli dimensioni, testimonianze eloquenti di uno stabilimento imperiale adibito, pare, tra l'altro, alla produzione di tegole bollate.
Non è tuttavia l'unico esempio, in quanto tutto il territorio gravinese ha restituito a seguito di scavi e ricognizioni evidenti testimonianze, immobili e mobili, della presenza di fornaci, specie in zona Botromagno e S. Gerolamo, nei pressi cioè del colle Pennino, vero e proprio "serbatoio" per il procacciamento di ottime argille sin dai tempi più antichi.
Ciò attesta la continua attività nei secoli delle fornaci locali e il loro inquadramento nel contesto produttivo di età imperiale e poi tardo antica.
Un non meno importante tassello lo aggiunge un altro sito individuato negli anni Settanta del Novecento dell'archeologa E. Lattanzi in una contrada vicinissima all'attuale centro abitato, sempre nei pressi del colle Petramagna: in questa zona denominata Santo Staso furono rinvenute delle formelle, probabili elementi decorativi destinati a un edificio sacro, che furono datate al VI secolo della nostra era, ormai in un contesto paleocristiano. Fu pertanto accreditata in quel sito la presenza di un deposito o una fornace adibita alla fabbricazione di tali elementi, sicuramente fabbrica locale di gran pregio.
A poca distanza da quel sito, a sud dell'attuale centro urbano, una serie di colline di natura argillosa ha sempre offerto agli artigiani locali la materia prima per la loro attività, in particolare è nota la pregiata "argilla azzurra" del colle Pennino. Ed è proprio su questo versante meridionale che si sviluppano in età medievale veri e propri quartieri artigianali, i cui toponimi ancora oggi ricordano il legame strettissimo con l'attività ceramistica. Oggi questi quartieri sono parte effettiva dell'abitato moderno di Gravina, avendo tuttavia conservato il nome di rione "Fornaci". Si tratta dell'antico quartiere dei "Figuli", appena fuori dalla porta meridionale del borgo antico, attestato dalle cronache antiche come rione abitato già alla prima metà del XIV secolo.
Era dunque un suburbio occupato prevalentemente da artigiani ceramisti, attestante quindi la presenza in loco di numerose fornaci, la cui memoria è giunta fino a noi anche dall'attuale denominazione del rione ormai urbano.
E in effetti la presenza di una continuità nella produzione ceramica che copre tutto l'arco tra Medioevo ed età moderna trova riscontro in diversi ritrovamenti, perlopiù provenienti da contesti rupestri e ipogei, grotte, cisterne, luoghi di culto.
Che provenga da scavi archeologici o dalla ripulitura di ambienti ipogei, o che sia materiale erratico decontestualizzato, la presenza di ceramica di vario tipo e datazione, dalle lucerne invetriate ai frammenti di brocche e piatti smaltati, a decori floreali o a scene figurate umane e animali, questa produzione presenta un'omogeneità stilistica e una diffusione così ampia nel tempo, tale da non lasciar dubbi riguardo alla sua origine prettamente locale.
Una svolta, che è anche un grosso input artistico per le produzioni locali, è probabilmente lo sviluppo e la massima diffusione in tutto il territorio della pregevolissima ceramica di Laterza.
Sicuramente anche a Gravina, nei secoli XVII e XVIII, il pregio della maiolica laertina attira i ricchi committenti locali, come dimostrano le splendide collezioni esposte presso il locale Museo Fondazione Pomarici Santomasi, spesso recanti raffigurazione degli stemmi nobiliari delle famiglie gravinesi committenti, oppure la diffusione di mattonelle votive, a uso privato o talvolta esposte nei muri esterni delle abitazioni dei rioni antichi. Se queste produzioni testimoniano ormai la diffusione di una ceramica "alta", destinata a ceti abbienti, perlopiù d'importazione in quanto prodotta dalle botteghe specializzate di Laterza, Grottaglie e perfino Napoli, parallelamente continuano a esistere produzioni locali, anche di ottima fattura, che spesso si rifanno a quei modelli di pregio riproducendone gli stilemi, ma con una caratterizzazione tipicamente locale: una produzione qualitativamente altrettanto notevole, dunque, quella prodotta in loco, tanto che il Pacichelli nel 1702 definisce gli esemplari ceramici gravinesi "vasi celebri di maiolica".
Grande sviluppo avrà, a partire dal XVII secolo, anche la produzione di mattonelle in cotto per pavimentazioni, ceramiche caratterizzate come locali per le loro caratteristiche cromatiche peculiari quali il bianco latte dello smalto, il blu, affiancato da tonalità di giallo, arancio, turchino. Esse sono ancora visibili in diverse chiese o nei palazzi antichi del centro storico.
Se certe produzioni, da artigianali che erano, nel tempo finiscono con l'industrializzarsi, ne sopravvivono altre legate a usi comuni e soprattutto alla tradizione e al folclore: v'è dunque da parte degli artigiani, i quali spesso si trasmettono il mestiere di generazione in generazione, una forte volontà di conservare e preservare la memoria del passato. Alcune botteghe si specializzano quindi della creazione di oggetti particolarmente identitari, nei quali la comunità si riconosce proprio per la loro ancestralità: è il caso della "cola cola", il fischietto bitonale ornitomorfo che ancora oggi è simbolo della città, dal valore apotropaico e propiziatorio, a riprova delle sue ataviche origini. Ancora oggi, la città vanta diverse botteghe che lavorano la ceramica per riprodurre artigianalmente gli oggetti della tradizione, talvolta rielaborandoli in senso creativo, dando vita a nuove creazioni e originali esempi di vera e propria arte fittile.
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Testo: Maria Galella.
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In foto: "Occhi" apotropaici su un'olla geometrica, collezione privata Fondazione E.P. Santomasi